La bellezza di ritagliarmi del tempo per scrivere storie che possano aiutare tutte/i noi, è che “mi obbliga” a riflettere su cose che a volte si danno per scontato. Ad esempio il fatto che essere bravi in qualcosa, possa bastare a fare sempre bene. Non è così, serve adattarsi all’ambiente, capire le problematiche specifiche e anche un pizzico di fortuna.
Questo articolo ripercorre brevemente le tappe fondamentali della carriera di Tina Brown, icona dell’editoria internazionale, dal successo con Vanity Fair al tracollo di The Daily Beast.
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La storia di Tina Brown (in breve)
La resilienza
Come costruire la resilienza in 4 passi
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Muoviti e Vestiti
Tina Brown
Tina Brown è un'icona dell'editoria internazionale, celebre per la sua capacità di trasformare riviste in declino in successi commerciali e culturali.
Nata il 21 novembre 1953 a Maidenhead, in Inghilterra, ha lasciato un segno indelebile nell'industria dei media grazie al suo talento visionario. Tuttavia, la sua carriera non è stata priva di inciampi, in particolare con The Daily Beast, progetto digitale che ha affrontato perdite finanziarie significative e fallimenti strategici.
Puoi ascoltare la storia di Tina Brown in versione estesa su Spotify.
Tina Brown cresce in una famiglia con una forte inclinazione verso la scrittura e la comunicazione, infatti Suo padre, George Hambley Brown, è un importante produttore cinematografico che lavora per la BBC.
Tina studia in prestigiose istituzioni, tra cui l'Università di Oxford dove inizia a mostrare il suo talento come scrittrice e giornalista, collaborando con riviste universitarie e successivamente con testate più grandi, come il Sunday Times.
Prima di concentrarsi sul fallimento di The Daily Beast, è importante comprendere il contesto professionale di Tina Brown e ripercorrere i successi che l’hanno resa una delle figure più celebrate nel panorama editoriale.
Per Tina Brown è importante avere obiettivi e deadline che per lei rappresentano un concreto aiuto alla mancanza di fiducia.
Con questo approccio, tra il 1979 e il 1983 trasformò una rivista britannica di nicchia , Tatler, in una piattaforma glamour per raccontare le vite delle élite. La sua abilità nel creare contenuti avvincenti aumentò le vendite del 300% in soli due anni.
Fu proprio grazie a questo lavoro che Tina attirò l'attenzione di Samuel Irving Newhouse, il magnate dei media statunitensi proprietario di Condé Nast che produce riviste come Vogue, Vanity Fair e The Newyorker e che la invitò a trasferirsi negli Stati Uniti per dirigere appunto Vanity Fair.
Condé Nast aveva da poco rilanciato Vanity Fair, fondata una prima volta nel 1859, ma poi cessata nel 1936. La rivista viveva una situazione problematica perché non aveva una propria identità e un posizionamento chiaro all’interno del mercato, ma nonostante questo,
Durante il suo mandato come direttrice dal 1984 al 1992, Tina Brown portò la rivista da un'oscura pubblicazione rinata a un vero fenomeno culturale, con un aumento della tiratura da 200.000 a oltre 1,2 milioni di copie. Ancora oggi ricordiamo le sue famose copertine disruptive, come quella di Demi Moore nuda con il pancione (ci torniamo in seguito, perché merita una riflessione in più).
Arriva il 1992, e Tina Brown accetta un'altra sfida ambiziosa: diventare direttore di The New Yorker, una delle riviste più prestigiose ma anche più conservative degli Stati Uniti. Molti critici furono inizialmente scettici sulla sua capacità di adattarsi allo stile intellettuale e raffinato di questo periodico, ma Tina dimostrò ancora una volta la sua abilità di adattamento e visione.
Sotto la sua guida, The New Yorker subì una modernizzazione significativa. Pur mantenendo il suo stile inconfondibile, introdusse nuove sezioni, accorciò gli articoli per renderli più accessibili e portò un approccio visivamente più accattivante. L'aumento delle vendite del 10% e il riconoscimento critico confermarono il suo successo anche in questo contesto.
Nel 1998, Tina Brown lasciò The New Yorker per fondare una nuova rivista: Talk, fondato insieme ad Harvey Weinstein in collaborazione con Miramax Films e Hearst Communications, concorrente di Condé Nast.
L’idea era di creare un prodotto editoriale che combinasse l'approccio tradizionale della stampa con il mondo del cinema e dello spettacolo. Nonostante il grande clamore iniziale e una massiccia campagna pubblicitaria, Talk non riuscì a decollare, infatti le vendite furono deludenti, e la rivista chiuse nel 2002.
Questo primo fallimento mise in discussione l'aura di infallibilità che aveva circondato Tina Brown fino a quel momento.
Il Lancio di The Daily Beast: una scommessa digitale
Arriva il momento per Tina Brown di esplorare nuove frontiere, come quella del digitale che di fatto, ha rivoluzionato e sta rivoluzionando tuttora il settore giornalistico, a partire da una fruizione degli articoli sempre più veloce e semplice, fino ad arrivare alle dinamiche di sponsorizzazione.
Nel 2008, viene chiamata da Barry Diller un investitore presidente di IAC (InterActiveCorp) ed ex amministratore delegato di Paramaount e Fox. Barry Diller ha prodotto film come La febbre del sabato sera o opere come I Simpson e ha plasmato l’’interactive Corp come un "incubatore" di aziende tecnologiche. La sua strategia si basa sulla creazione di valore a lungo termine attraverso l'uso di tecnologie emergenti e l'espansione digitale. Grazie a questo approccio, sono state portate al successo aziende come Expedia o Tinder.
La sfida che Barry Diller propone a Tina Brown è il The Daily Beast una rivista digitale che, puntava a fornire notizie tempestive e commenti incisivi, mantenendo uno stile vivace e provocatorio, in un periodo di grande trasformazione digitale per il settore dei media.
L’Investimento iniziale fu circa 18 milioni di dollari in tre anni, e gli obiettivi dichiarati: erano quelli di 5 milioni di visitatori unici al mese entro il primo anno.
Nel 2010, il sito sembrava in crescita, con circa 4,5 milioni di visitatori unici mensili, grazie alla qualità dei contenuti e al mix di notizie brevi e approfondimenti. Tuttavia, la mancanza di un piano di monetizzazione robusto e un modello di business fragile, iniziò a pesare.
Con l’approccio editoriale di Tina Brown e la sua esperienza pregressa a Vanity Fair, The Daily Beast si concentrò su reportage approfonditi, a differenza di altri siti che puntavano invece su contenuti virali e facili da monetizzare.
Nel mondo del digitale l’istantaneità e la frequenza di pubblicazione è fondamentale per rimanere visibili e quindi sperare di essere attraenti per gli inserzionisti e invece i reportage approfonditi, pur ricevendo apprezzamenti dai critici, non generavano entrate significative. In particolare, mentre ci si aspettava di vendere almeno 1.150 pagine pubblicitarie per rientrare nei costi, il numero effettivo si è fermato a 600.
Uno dei principali problemi fu la difficoltà di monetizzare i contenuti online. Nel digitale esistono vari modelli di business a seconda della specificità del settore. Se pensiamo ad una testata giornalistica oggi, è facile renderci conto di come non sia solo la pubblicità a generare dei ricavi, ma anche l’abbonamento digitale alla rivista che garantisce la lettura dell’intero giornale.
Per il The Daily Beast, la strategia scelta fu quella basata principalmente sulla pubblicità, ma il calo dei ricavi pubblicitari digitali rese questa scelta insostenibile. La pubblicità nel digitale ha dinamiche totalmente diverse dalla carta stampata e per poter contare su cifre sostenibili, è necessario che ci siano milioni di visualizzazioni, in numero molto più grande rispetto alla tiratura di un giornale cartaceo. Inoltre, il giornale non era supportato da un modello di abbonamento consolidato, e questo limitò di molto le entrate.
La formula “abbonamento” infatti, garantisce una fetta di abbonati che producono ricavi indipendentemente dalle visualizzazioni di un articolo e la maggior parte delle testate ha questo modello di business come principale, oltre poi ad inserzioni pubblicitarie.
Un altro motivo di fallimento fu una fusione fallimentare con un altro giornale. Nel 2010 infatti, The Daily Beast si fuse con Newsweek, una rivista cartacea che Tina Brown cercò di rilanciare e integrare alla piattaforma digitale creando una rivista ibrida. Questo generò dispendio di risorse e confusione tra gli inserzionisti e il risultato fu una perdita finanziaria significativa. Inoltre, la decisione di continuare a pubblicare Newsweek in formato cartaceo, nonostante il calo delle vendite, aggravò ulteriormente la situazione.
Inoltre in quegli anni, come anche oggi del resto, la Concorrenza era spietata e mentre The Daily Beast inseguiva modelli editoriali tradizionali, altri siti stavano sfruttando i social media e l’ottimizzazione SEO che per attrarre milioni di nuovi lettori.
La SEO, search engine optimization è la tecnica secondo la quale è possibile posizionarsi tra i primi risultati di google a seguito di una ricerca di dell’utente (per farla semplice), in relazione a determinate parole chiave.
Negli anni successivi al lancio, la competizione nel settore delle notizie online divenne sempre più agguerrita. Piattaforme come BuzzFeed e HuffPost riuscirono a conquistare un pubblico più giovane grazie a un approccio più virale e orientato ai social media, cosa che The Daily Beast, invece, non fece.
Il risultato fu disastroso e le perdite economiche furuno da imputare:
- Costo della Fusione: la fusione comportò un investimento di oltre 50 milioni di dollari in tentativi di rilancio di Newsweek.
- Perdite Totali: si stima che Newsweek/The Daily Beast abbia perso circa 30 milioni di dollari l'anno tra il 2010 e il 2013.
- Vendite di Newsweek : la tiratura cartacea crollò da oltre 3 milioni di copie a circa 1,5 milioni nel 2012, con una diminuzione costante degli introiti pubblicitari.
La fusione distrasse risorse e attenzione dal progetto digitale. Mentre concorrenti come BuzzFeed e HuffPost stavano conquistando un pubblico giovane e dinamico, The Daily Beast faticava a definire una chiara identità, bloccato tra il prestigio del passato e le richieste di innovazione.
Tina Brown inoltre fu criticata per il suo stile di gestione troppo orientato ai dettagli e poco efficace nel delegare, la sua leadership fu definita accentrata e non riuscì a guidare The Daily Beast attraverso un panorama mediatico in rapida evoluzione.
Questo evidenziò non solo le difficoltà di adattarsi al nuovo ecosistema digitale, ma anche i limiti di una strategia basata esclusivamente sulla qualità editoriale senza un solido piano economico.
Il talento a volte non è abbastanza, è necessario sapersi adattare al contesto, intuire nuove necessità ed evolvere assiema al mercato.
Nel 2013, Tina Brown lasciò la direzione di The Daily Beast, mentre Barry Diller dichiarava pubblicamente che il progetto era stato una delusione finanziaria. The Daily Beast sopravvive ancora oggi, ma senza la guida di Brown si è ridimensionato e ha rinunciato a molte delle sue ambizioni iniziali.
Dopo l’uscita da The Daily Beast, Tina Brown si dedicò a un progetto più personale e sociale: il Women in the World Summit. Fondato nel 2010, questo evento annuale si propone di dare voce a donne straordinarie provenienti da ogni parte del mondo, affrontando temi legati all’uguaglianza, ai diritti umani e all'empowerment femminile. Una delle più iconiche copertine di Vanity Fair infatti, nasce proprio poco dopo la sua seconda gravidanza. Tina Brown deciderà di far uscire una cover con Demi Moore in copertina, nuda e incinta. Questi scatti di Annie Leibovitz erano stati fatti a parte come un souvenir privato, ma Tina, vedendoli, pensò a quante volte aveva pensato di dover nascondere la sua gravidanza o quantomeno minimizzarla, perché carriera e biberon non sembrano andare d’accordo. Chiede e ottiene da Demi l’autorizzazione a fare di quella foto la copertina.
Scrive: «Credo che le donne abbiano bisogno di questo».
Tina Brown rimane una figura cardine nel mondo dei media. Mentre il fallimento di The Daily Beast ha evidenziato i rischi di una transizione mal pianificata al digitale, i suoi successi precedenti e i suoi progetti successivi, come il Women in the World Summit, mostrano la resilienza e la capacità di reinventarsi.
La sua storia è una testimonianza dell'importanza di imparare dagli errori e di continuare a innovare, anche in un panorama mediatico in continua evoluzione. Tina Brown ha dimostrato che, nonostante i fallimenti, la creatività e la determinazione possono sempre aprire nuove strade.
La resilienza
La resilienza è l’arte di adattarsi prima e rialzarsi poi.
Essere resilienti non è un tratto innato: è una competenza che possiamo allenare giorno dopo giorno, sviluppando consapevolezza, flessibilità e fiducia in noi stessi.
💡 Perché è importante?
La resilienza ci permette di:
• Rimanere motivati anche nei momenti difficili.
• Affrontare il cambiamento con apertura e adattabilità.
• Trovare nuove soluzioni quando un piano non funziona.
📌 Come costruire resilienza in 4 passi 💪✨
1️⃣ Accetta le emozioni
Non ignorare ciò che senti. Paura, rabbia o tristezza sono normali. Osservale senza giudizio e chiediti: Cosa posso imparare da questo?
2️⃣ Costruisci una rete di supporto
Circondati di persone positive e affidabili. Condividere esperienze e ascoltare consigli può fare una grande differenza.
3️⃣ Fissa piccoli obiettivi
Riparti con obiettivi semplici e raggiungibili. Ogni passo avanti, anche piccolo, ti aiuterà a ricostruire fiducia in te stesso/a.
4️⃣ Prenditi cura di te
Cura il corpo e la mente: dormi bene, mangia sano, medita o fai attività fisica. La resilienza parte da un equilibrio interiore.
🌟 Ricorda: La resilienza non è assenza di difficoltà, ma la forza di affrontarle con coraggio e adattabilità.
Libri & Link di approfondimento
The Vanity Fair Diaries: 1983 - 1992- di Tina Brown
L’America delle Vanità secondo Tina Brown - Vanity Fair
Tina Brown dice addio al giornalismo - La Stampa
One year after Tina Brown exit, Daily Beast traffic surges - Politico
Muoviti & Vestiti
Mi piacerebbe concludere ogni Newsletter Alfa con delle pillole relative al linguaggio non verbale, attinenti alla storia raccontata. In questo caso ho scelto un movimento e un capo di abbigliamento che descrivono la resilienza Se ti interessa approfondire questo lato, puoi seguirmi su Instagram.


Muoviti: il movimento a terra aiuta a connettersi. Il pavimento rappresenta un ostacolo, un limite ai movimenti, ma può diventare un alleato, un sostenitore. Adattarsi al pavimento da una parte ti fa sentire più ancorata e dall’altra ti permette di lasciare andare.
Vestiti: la nuova scarpa di Balenciaga si chiama The Zero ed è un ritorno all’essenziale. Ritornare all’essenziale è necessario e terapeutico quando siamo travolti da qualcosa, a maggior ragione da un fallimento. Ci aiuta a prendere le distanze e a vedere le cose più chiaramente.